Impressioni

… ancora vedo, sento, i sorrisi, le voci dei bambini, i canti provenienti dai villaggi vicini, i cori e le preghiere della messa domenicale, il bisogno dei bambini, e nostro di abbracciarci e baciarci. La gioia, il sorriso, gli abbracci di una bimba e le lacrime al momento della partenza.

….Qui mi sono ricordata della motivazione profonda per cui ho scelto di essere pediatra: se ho acceso un sorriso in più negli occhi di uno solo di questi bambini, ecco, allora sono proprio felice. Questa felicità è la nostra ricompensa, è quello per cui tutti noi abbiamo deciso di venire quì.

… Come sempre vieni qui con l’illusione di dare qualcosa, ma ti vergogni perché quello che ricevi è molto di più.

… Là si faceva il medico, si aveva la sensazione di essere in qualche modo utili e si riceveva in cambio un sorriso sincero, pieno di riconoscenza. …

….E’ come se un raggio di luce abbia illuminato la mia strada e abbia ridato il colore a una vita che mi appariva irrimediabilmente grigia.

… Ciò che mi colpiva di più in quasi tutti i piccoli era l’aggancio visivo intenso e prolungato, modalità privilegiata di stare in contatto con il mondo.

… Già, e i miei colleghi pediatri? Non li conoscevo entrambi, ma questo progetto, questa strada percorsa assieme mi ha permesso di apprezzarne le doti professionali ed umane di entrambi e che voglio ringraziare per tutto quello che mi hanno lasciato.

dal diario dei pediatri CCWW

“Tutti i viaggi hanno una destinazione segreta, di cui il viaggiatore è ignaro”

Forse ci è già capitato di ascoltare i racconti di medici o infermieri di ritorno da paesi in via di sviluppo, sradicati per breve tempo dalla tecnologia di un ambulatorio confortevole o da un reparto di terapia intensiva e catapultati in un ospedale rurale in Africa od in Asia. Proviamo ad immaginare di leggere alcune pagine di un loro diario di viaggio, che forse è stato scritto con regolarità o che forse è solo rimasto impresso nella loro memoria come una fotografia.

Saint Luke Hospital di Wolisso – Etiopia, 10 novembre 2011: La stagione delle piogge è finita, perciò sono iniziate le spedizioni ai villaggi per l’applicazione del programma nazionale di vaccinazioni estensive, di solito associate alle campagne di istruzione alimentare, in gergo “out-reach and community work”. Raggiungere i villaggi significa addentrarsi nell’altopiano etiopico, oltre gli health center, che rappresentano centri ambulatoriali periferici di primo soccorso, dove è possibile offrire un’alternativa al parto nelle capanne. La strada sterrata acquista progressivamente le caratteristiche di una mulattiera, finchè non diventa un pista nella savana. Dopo circa 2 ore di fuoristrada ci fermiamo all’ombra di una grande acacia, dal tipico profilo ad ombrello, e lì ci accoglie l’anziano del villaggio. In breve tempo arrivano le donne ed i bambini che, ciascuno trasportando un pò legna secca da ardere, pazientemente si dispongono a semicerchio.Le vaccinazioni nei paesi in via di sviluppo si inseriscono nel programma WHO che si ispira al concetto di raggiungere gli insediamenti periferici (RED = reach every district), per garantire una copertura vaccinale di almeno 80% in età pediatrica, per quelle malattie potenzialmente mortali, prevenibili con un ciclo completo di immunizzazione.

Dal 1977 il vaiolo è scomparso dalla terra e stiamo per raggiungere l’eradicazione della poliomielite, ma ancora oggi nei paesi in via di sviluppo il morbillo miete vittime con 150.000 decessi ogni anno. Guardo i bambini che ci circondano e penso che molti di loro non arriveranno a superare i 5 anni di età per malattie curabili, in larga misura correlate con la malnutrizione. Mentre osservo i preparativi e predisponiamo un ambulatorio da campo, mi ronza in testa la “goccia d’acqua nel mare” di madre Teresa.

Fitsum è una giovane assistente sociale ed insieme a Tujube ed Emmawash, ostetriche ed infermiere pediatriche, oggi riuniscono le mamme dei villaggi per insegnare loro come mescolare alimenti diversi ed ottenere un equilibrato apporto di nutrienti. È una dimostrazione pratica che inizia con la benedizione dell’anziano del villaggio, prosegue con il riconoscimento degli ingredienti e si conclude con la preparazione sul fuoco di un porridge che verrà distribuito a tutti i bambini presenti. Fitsum ci dà un esempio di lezione interattiva, in cui le mamme partecipano alla preparazione del pasto comunitario con le risorse alimentari locali.

 

La dimostrazione finisce con l’assaggio del porridge, con la distribuzione di una banana a tutti i bambini e con l’immancabile cerimonia del caffè. Se noi italiani pensiamo di avere le ricetta del miglior caffè è solo perché non abbiamo ancora assaggiato quello etiope, tostato, pestato su un mortaio e filtrato in acqua bollente nella jabena, la prima caffettiera della storia.
Al ritorno sosta programmata nella savana, ma per me inattesa: pranzo collettivo a base di ingera, il piatto tradizionale etiope.
E non faccio nessuna fatica a condividere questo pasto frugale mangiato in un unico piatto, senza posate, a sei mani. È stata una lezione di nutrizione, o semplicemente una lezione di vita: Amassaganallo, grazie Fitsum.

Bruno

La NU, Neonatal Unit di Attat

Le mie impressioni sul lavoro fatto ad Attat non è dal punto di vista medico, ma di una persona che ha visto nascere la patologia neonatale e ha cercato di capire dove portava questo progetto. La realtà di quel luogo era che se un neonato nasceva prematuro le possibilità di sopravvivere erano poche: se era abbastanza forte forse ce la faceva e viveva. Ricordo la prima volta che sono andata ad Attat ed ho visto su una porta chiusa la scritta “NU”, c’era solo la scritta, ma la stanza era vuota. Dopo alcuni giorni è arrivato un bimbo con distress respiratorio, un bambino non prematuro che però aveva bisogno di cure. Si è iniziato con flebo, antibiotici, ossigeno. Dopo 2 giorni il bimbo stava meglio, ma non si attaccava al seno; stimolandolo la mamma è riuscita ad attaccarlo al seno e piano piano ha iniziato a succhiare, ma non era ancora in condizioni di andare a casa. Il padre voleva portarlo via, la mamma voleva rimanere, ma le donne non hanno il potere di decidere, quindi non parlava. Io ero molto scossa perchè se lo avessero staccato dall’ossigeno probabilmente sarebbe morto. Sister Rita mi ha detto che tutto questo era stato detto al papà, ma se lui voleva portarlo via era suo diritto. Sister Nighist ha iniziato a togliere l’ossigeno ed a prepararlo per darlo ai genitori… io guardavo il viso della mamma e vedevo la sua disperazione, che mi ha trasmesso e non sono riuscita a trattenere le lacrime. In quel momento incrociai gli occhi dello zio, il fratello del papà, lo vidi andare dal fratello. Non so cosa si sono detti, so solo che la mamma ad un certo punto mi sorrise: capii che sarebbero rimasti con il bambino. Rimettemmo la flebo e l’ossigeno e il bimbo rimase

….Racconto questo episodio perchè da allora sono cambiate molte cose: ci si è resi conto che i genitori di questi piccolini credono che ci sia la possibilità di poterli curare, naturalmente con tutti i limiti che offre la struttura. Sono disposti a tenere i bambini ricoverati e non pretendono di portarli via, anzi sono loro che chiedono di rimanere finchè il bimbo non è in condizioni di poterlo gestire a casa. Ci sono ancora genitori che li portano via, ma sono quelli che hanno altri figli… e se mancano loro non hanno da mangiare, quindi sacrificano uno per salvare gli altri. E’ difficile da capire se non si vive la loro realtà. Io all’inizio non capivo, ma oggi rispetto il loro volere perchè mi sono resa conto che ha una sua logica, e da allora anche io dico “se Dio vuole forse ce la fa”.

….Oggi la NU è una piccola oasi, è una struttura pulita e penso che un po’ la mentalità siamo riusciti a cambiarla, ripetendo più e più volte che sono pazienti piccoli e a rischio ed è importante non entrare con scarpe sporche, o mangiare all’interno, perchè questo danneggerebbe molto i bimbi e porterebbe ad avere un luogo pieno di virus e batteri. L’igiene è fondamentale e mi sono molto meravigliata nel vedere le mamme che entravano e si lavavano le mani prima di avvicinarsi al loro bambino. Io non essendo medico posso fare poco dal punto di vista delle terapie necessarie ai piccoli pazienti, ma per quanto riguarda l’allattamento e l’igiene si può fare molto, non imponendo, ma facendo. Le mamme che sono molto attente: ti guardano e poi ti seguono e sono convinta che questa sia la strada giusta perchè devono gestirli loro i piccolini, le mamme.

…. ad Attat ho visto la morte che non mi aspettavo ed ho molto sofferto per quei piccoli esserini che se ne andavano uno dopo l’altro, ma ad Attat ho conosciuto anche la gioia ed il sorriso. Sono persone piene di dignità che ti ringraziano anche se perdono un figlio; io personalmente ho ricevuto molto di più di quel che ho saputo dare. Da tutti, suore, personale, pazienti, ho imparato qualcosa che mi porterò per sempre dentro me: in particolare ripenso spesso al papà che da solo ha vegliato la sua piccolina che è morta per un blocco intestinale. Dico “da solo” perchè nella stanzetta c’erano solo loro due. Mi sono svegliata alle 5 e sono corsa a vedere come stava la piccolina … il papà era seduto sulla sedia dove lo avevo lasciato la notte che guardava quel piccolo corpicino morto da ore, solo una cosa era cambiata la porta non era più chiusa, ma aperta.

Stella

WHY ME?

E’ uno degli ultimi giorni delle due settimane che come medici volontari trascorriamo a Daddy’s Home. Sono seduto al tavolo della cucina della casa nel campus dove noi medici siamo ospitati durante le nostre missioni. E’ sera e sto riordinando le idee su quanto avvenuto nella giornata da poco terminata e cerco di organizzare il programma della prossima giornata, quando si presenta Terry e mi chiede di poter parlare un po’ di un problema che la assilla. Terry, non lo nascondo, è una delle ragazze che preferisco perché è timida, ha sempre una dolcezza nel volto che fa sì che non le si possa non voler bene e cercare di proteggerla. Da alcuni mesi sta assumendo la cosiddetta “second line therapy”, cioè la terapia che in seconda battuta viene somministrata ai malati di AIDS quando la “first line therapy” si dimostra insufficiente per controllare la malattia. Gli effetti collaterali possono essere più pesanti, spesso è mal tollerata dai malati e Terry non fa eccezione, per cui ha bisogno di maggior supporto per continuarne l’assunzione. In effetti nei giorni precedenti ci eravamo ritrovati a parlarne, a tu per tu o in gruppo, assieme alle altre ragazze sieropositive. Ma questa sera Terry ha un’espressione diversa, più preoccupata. Mi dice che le argomentazioni che noi medici adduciamo per indurre i ragazzi e le ragazze, soprattutto adolescenti come lei, ad essere molto attenti e scrupolosi nell’assunzione quotidiana della terapia antiretrovirale, adesso la toccano profondamente. Mi racconta (ma questo già lo sapevo perché me lo aveva riferito l’infermiera del campus) di non aver assunto la terapia di prima linea per un intero mese quando è stata dalla nonna durante le vacanze scolastiche che sarebbero dovute durare un mese e che invece si sono protratte per un altro mese; che né lei né alcuno dei suoi parenti (Terry ha ancora la nonna e due sorelle maggiori, sposate e non infettate dall’HIV) ha pensato di andare in ospedale a ritirare le confezioni di farmaci antiretrovirali necessarie per continuare la terapia; che al rientro al campus gli esami segnalavano un drastico calo del titolo dei linfociti CD-4, inequivocabile segno della ripresa attività del virus; che da allora in ospedale le avevano prescritto questi nuovi farmaci che le danno molti più disturbi; che nonostante la nuova terapia gli esami non sono brillanti e lei si sente sempre stanca. Terry è molto preoccupata, sa che la sua malattia può essere mortale se non adeguatamente curata. Mentre sta parlando le si rompe la voce e comincia a piangere.

Mi sento impotente di fronte al suo dolore, che parole potrei dirle per rassicurarla ed alleviare anche solo un poco il suo tormento? Non trovo nulla di meglio che abbracciarla in silenzio. In quel momento mi disse quelle due sole parole a cui non riuscii a dare risposta e che ancora adesso mi risuonano quando ripenso a lei e ai ragazzi e ragazze che questa maledetta malattia si è portati via: “why me?”

Gianpaolo

DUE HOMELESS IN CENTRO A CHISHINAU E LE SUORE DI MADRE TERESA  (Moldavia, Missione in collaborazione con il CUAMM 2022) 

 Le suore di madre Teresa che operano a Chishinau ci contattano tramite i Salesiani e ci danno appuntamento in centro città per vedere le piaghe ai piedi di un “homeless”. In realtà i “senzatetto”  sono due, in condizioni igieniche precarie e con i piedi avvolti di stracci. Togliamo gli stracci e scopriamo i piedi, ma quel che ci appare è peggio delle nostre previsioni: si tratta di ulcere estese e contaminate da polvere ed altro, alternanti esposizione del derma intensamente iperemico, escare e tessuto di granulazione, tanto da ricordare ustioni di secondo grado profonde. Il primo giorno di limitiamo ad un trattamento grossolano con lavaggio e disinfezione a base di amuchina diluita, quindi applichiamo garze grasse che le suore avevano miracolosamente portato con sé insieme a bende elastiche. Alla domanda di antibiotici le suore ci sorprendono di nuovo e dal sacchetto li tirano fuori: verranno mattina e sera a somministrarli. Il secondo giorno oltre a lavaggio e disinfezione, puliamo a fondo le ampie lesioni asportando escare e tessuto necrotico ed applichiamo un bendaggio occlusivo. I due “clochard”  camminano a stento, ma le suore hanno portato oltre a dei calzini, delle pantofole… quelle bianche e morbide che usiamo negli alberghi per fare la doccia e che in questo caso vanno benissimo. I piedi sono edematosi, con la cute translucida, insensibili al dolore, con callosità ed i margini delle ulcere sono biancastre, a bordi spessi e rilevati. Ci chiediamo da quanto tempo hanno queste lesioni, quale sarà l’evoluzione, che rischio ci sia di infezioni, in particolare gangrena o setticemia.

E’ difficile descrivere a parole la gravità di queste ulcere cutanee, posso solo dire di non averne mai viste di simili.  Le suore ci ringraziano, ma nel salutarle siamo noi a ringraziarle per quello che fanno, per l’entusiasmo che ci trasmettono ed il sorriso che ci donano. Sono 4 giovani suore che vengono da Polonia, Romania, Kenia e India, ma come loro ce ne sono tante altre sparse nel mondo, là dove le città sono affollate e ci sono persone emarginate di cui manco ci accorgiamo. Ho assicurato che torneremo: prossimo appuntamento fra 2 giorni alle 15,30 nello stesso posto, all’incrocio fra 2 strade in centro città, perché i “barboni” si sa che scelgono un posto e lì si stabiliscono. Io non ci sarò, rientro in Italia, ma altri colleghi del CUAMM che mi sostituiranno prenderanno il testimone e proseguiranno questa staffetta nella speranza di offrire una possibilità a chi vive ai margini della nostra società, pur essendo in centro a Chisinau…

E mentre ritorno alla mia abitazione incrocio altri “homeless” di cui nei giorni scorsi non mi ero accorto.

                                                                                         Bruno